Ho avuto il piacere di pubblicare un’intervista a John Holder, fondatore dell’azienda Leader nel 1987. Tra i maggiori distributori di videogiochi sul mercato Italiano, fino agli anni duemila, John ha lasciato l’azienda nel 2009 che, qualche anno dopo, ha chiuso i battenti. L’occasione di quest’intervista è stata soprattutto gradita per chiarire alcuni degli aspetti oscuri di quanto successo tra il 1984 e la creazione dell’azienda di distribuzione, anni in cui la pirateria regnava sovrana e Holder ne era tra i più agguerriti oppositori.
John, come è iniziato il tuo rapporto con il mercato Italiano?
Nei primi anni 80 lavoravo già in Italia, continuando, però, ad avere la famiglia in Inghilterra. Spostandomi con regolarità tra le due nazioni, avevo notato l’iniziale boom delle nuove generazioni di videogiochi (Atari 2600, Intellivision) in UK, a cui poi sono subentrati home computer come Spectrum 48K, Vic 20 e, ovviamente, Commodore 64. Ai tempi ero più che altro un frequentatore di sale giochi, ma apprezzavo anche il resto. Un giorno, recandomi per lavoro in un piccolo negozio di Varese, zona in cui avevo diversi contatti, lavorando per la Arton la mia prima società, mi dicono “dovresti portare dall’Inghilterra qualcuno di questi giochi, ci sembrano interessanti”. Nel videogioco, vedevo allora una nuova forma d’intrattenimento, tanta gente invece pensava fosse una cosa temporanea che sarebbe morta di lì a poco. Personalmente, rimanevo convinto che i videogiochi avrebbero avuto un futuro importante, in Italia non sembrava davvero occuparsene nessuno, quindi stava a me iniziare a verificare quale fosse l’effettiva fetta di mercato disponibile.

I primi titoli distribuiti, quindi, sono stati proprio con la società Arton?
Sì esatto, si trattava di una SRL che si occupava di import ed export. Personalmente, facevo sicuramente più export che import! La distribuzione di quei primi titoli, tra cui quella della Imagine Software, aveva un discreto successo, tanto che nel giro di poco tempo, ho deciso di rendere la distribuzione di giochi la mia attività principale. L’altro socio non era d’accordo, però, così ho deciso di lanciare una nuova società, che si occupasse della distribuzione esclusiva della Mastertronic UK.
Come si svolgeva il tuo rapporto con i publisher e le software house locali?
Avevo contatti diretti con le software house, i cui nomi prendevo dalle riviste dell’epoca, per esempio contattandoli attraverso le pubblicità. Oltre alla già citata Imagine Software, di sicuro mi ricordo la Quicksilva. Dopo aver trovato un accordo, diventavo loro rappresentante ufficiale e venditore nella zona intorno a Varese. Qualche mese dopo la nascita della Mastertronic, abbiamo preso uno stand alla fiera di Milano, prendendo contatti con diverse zone italiane, trasformando così la rete in una vera e propria filiera distributiva che arrivava a coprire tutto il Nord Italia.

Soffermiamoci un attimo su questo primo periodo, che prodotti avevate deciso di portare in Italia?
Come detto, nel 1984 ero rappresentante ufficiale di Mastertronic per l’Italia, fu un rapporto che durò circa un anno e mezzo. Siccome, già allora, il problema della pirateria ci obbligava a pensare fuori dai normali standard di mercato, abbiamo pensato di cominciare distribuendo dei prodotti a basso costo: si trattava di giochi proposti su prezzi intorno alle settemila lire, se non ricordo male. Col tempo, poi, mi son reso conto che fossilizzarsi solo su quel tipo di titoli low budeget, avrebbe portato la pirateria a prendersi tutto il resto del mercato. Insomma, mentre noi distribuivamo titoli di minor conto, loro si prendevano quelli di richiamo, mettendoli sul mercato agli stessi prezzi dei Mastertronic. Non stava funzionando.
Così hai iniziato a distribuire titoli anche di altre software house, anche se poi Mastertronic non la prese bene, mi dicevi.
Sì esatto, abbiamo iniziato ad allargare il parco titoli su studi più importanti, come Ocean, US Gold, Activision e Domark. A quel punto le persone di Mastertronic mi hanno detto: “John, we understand, ma non puoi usare il nostro nome per distribuire i prodotti della concorrenza.” Insomma, lo spunto di cambiamento è arrivato prima da loro! Era circa il 1987 e stavo pensando a come chiamare la nuova azienda. In Italia si usa molto chiamare le aziende con dei richiami effettivi alle iniziali dei nomi dei vari soci, ma non era un’idea che mi convinceva. Volevo un nome che avesse un significato vero e proprio, siccome a quei tempi eravamo leader del mercato, con un pizzico di arroganza, abbiamo scelto proprio Leader. Così che anche i nostri concorrenti, quando ci nominavano, avrebbero dovuto riconoscerci tali! (ride)

Facciamo un passo indietro agli anni di Mastertronic, proprio dopo il 1985 esplode con forza il problema della pirateria.
Esatto. Ricordo che servivamo circa 500 negozi clienti in tutta Italia e sull’intero territorio vendevamo sempre un migliaio di pezzi, né più né meno. Per ogni gioco, le richieste erano sempre quelle. In un certo senso, questo mi facilitava molto gli ordini: non importava la qualità o il genere, ne avremmo venduti comunque mille. Poi mi sono fatto due conti e ho capito cosa stava succedendo: ne vendevamo esattamente due copie per ogni negozio. In pratica, uno lo esponevano in vetrina e l’altro lo usavano per fare le copie pirata.
Come si poteva convincere il mercato a iniziare a rifiutare le copie pirata e ad apprezzare l’originale?
Non era di certo una cosa facile. In primis, dovevamo convincere il publisher originale a farci prezzi convenienti, così da poter uscire in Italia su un prezzo che non superasse – in ogni caso – le 15mila lire. Cercavamo quindi di garantire una qualità superiore rispetto al copiato, con una bella copertina e un manuale d’istruzioni in Italiano. Ci è voluto del tempo, ma alla fine penso che abbiamo convinto il mercato. I negozi stessi hanno iniziato a ritenere che non valesse la pena perdere tempo con i copiati, siamo riusciti a convincere quasi tutto che vendere l’originale fosse meno rognoso. Perlomeno così è stato fino all’esplosione dell’Amiga e l’arrivo dei floppy da 3 pollici e mezzo, da lì in poi la situazione è diventata definitivamente ingestibile.

Così hai deciso di affrontare il problema a muso duro, iniziando a fare causa alle diverse aziende che distribuivano i piratati.
Esatto. Col senno di poi, questo è qualcosa di cui mi pento. Probabilmente se avessimo aspettato, il problema alla fine si sarebbe risolto da solo. Dico questo soprattutto perché all’inizio era difficile combattere: la legge non offriva alcuna forma di tutela a noi come distributori ufficiali. Naturalmente, poi col tempo sono state create le varie associazioni di tutela del software, oltre alla specifica legge del 1993 che tutelava direttamente il software. Da lì a qualche anno, il fenomeno è scomparso o, perlomeno, è scomparso come realtà a livello industriale.
Tra le varie cause, c’è quella contro Fermont che in realtà ha portato alcuni risvolti inaspettati, mi dicevi.
Sì, in pratica siamo arrivati a una sorta di risoluzione stragiudiziale per cui noi ritiravamo la causa e loro s’impegnavano a pubblicare una rivista con titoli legittimi. Attraverso quell’accordo son riuscito a fare arrivare in Italia Zzap!, comprando i diritti direttamente da Newsfield nel Regno Unito. D’altronde, come Leader avevamo anche bisogno di qualche rivista su cui pubblicizzare i nostri titoli, visto che all’epoca in Italia c’era poco e niente al riguardo.
Una delle cause più famigerate, naturalmente, rimane quella contro Ital Video, l’azienda “legittima” creata da Mario Arioti della Armati software. Cos’è successo?
Sì, quella è stata piuttosto complessa, per ricostruirla dobbiamo parlare prima di Software Copyright. Un giorno Mario Arioti viene a trovarci a Varese, per dirci che secondo lui non avremmo mai potuto guadagnare seriamente vendendo titoli originali, perché in Italia le cose sono fatte “diversamente”. Così mi fa una proposta: voi continuate a produrre gli originali, io intanto faccio le copie e ci dividiamo il ricavato. Personalmente non ero affatto d’accordo, e in ogni caso, anche se lo fossi stato, non stava certo a me decidere qualcosa del genere. Così, piuttosto ho pensato di fargli una controproposta legale: fare una società che, invece di comprare prodotti finiti, avrebbe acquistato diritti di titoli a poco prezzo, così da portare sul mercato un prodotto lecito.
Così si arriva alla creazione di Software Copyright, a cui successivamente ha lavorato anche Antonio Farina, se non erro.
Farina l’abbiamo ingaggiato a una fiera: era una persona in gamba e volevo si occupasse di fare sviluppo di nuovi giochi con la creazione del nuovo studio, Idea Software. Il marchio con cui i suoi giochi uscivano era, infatti, quello di Idea, ma la società dietro rimaneva sempre Software Copyright. Hanno fatto uscire alcuni titoli anche importanti, tra cui Clik Clak (uscito poi come Gearworks sul mercato statunitense, l’unico titolo sviluppato in Italia a uscire per Game Boy e Game Gear – ndr) nel 1992.

Tornando all’accordo con Arioti, alla fine questo non portò soddisfazioni a nessuno.
Infatti, dopo pochi mesi Arioti ha iniziato a lamentarsi che i titoli fossero troppo pochi, così da non riuscire a fare concorrenza con chi aveva un catalogo ricco (di titoli piratati – ndr). Così mi ha chiesto – di nuovo – di poter comprare direttamente il prodotto, invece della licenza, così da portarlo ai rivenditori. Il mio socio e direttore commerciale Emilio Macchi non era affatto d’accordo e ricordo che mi disse “guarda che così finiamo per fare concorrenza a noi stessi”. Nonostante ciò, Arioti mi rassicurava dicendo che non avrebbe portato i prodotti agli stessi negozi clienti di Leader, così abbiamo deciso di dargli retta. Invece, aveva ragione Macchi: Ital Video andava a vendere i prodotti agli stessi nostri clienti. A quel punto ho detto ad Arioti che non potevo più fornirgli il nostro prodotto e, piuttosto, se voleva continuare l’accordo, potevamo proseguire solo con i titoli su licenza della Software Copyright. Lui mi ha detto che non era affatto contento e, praticamente il giorno dopo, mi manda una lettera in cui si tirava fuori dall’accordo. Decidiamo comunque di tenere in vita Software Copyright, come società secondaria al fine di continuare ad acquistare licenze per portare titoli in Italia, piuttosto che acquistare il prodotto finito.
Il rapporto con Ital Video, però, non finisce lì, perché dopo qualche mese iniziate a notare qualcosa di strano, cos’è successo?
Alcuni dei nostri agenti di vendita mi iniziano a riferire che la Ital Video stava vendendo i nostri stessi prodotti, a prezzi ben più bassi. All’inizio le avevo considerate come mere voci di corridoio, poi sono diventate sempre più insistenti. Ingenuamente, volevo pensare che avesse trovato un accordo con grossisti inglesi, magari a prezzi più bassi dei nostri. Un giorno, però, un agente mi ha inviato alcuni dei campioni venduti da Ital Video. Nonostante a prima vista, le cassette potessero sembrare originali, erano chiaramente diverse dal resto della loro linea di prodotti originali. Simili, ma chiaramente di qualità inferiore, con un tipo di nastro diverso e una qualità della stampa più sbiadita. Ma l’indizio più eclatante era il codice a barre, tutto zigrinato e coperto da una bella etichetta “distribuito da Ital Video”. Insomma, siccome non gli fornivamo più il prodotto, avevano deciso di farselo in casa, copiandolo direttamente dai nostri. Da lì è partita la causa per riproduzione illecita.

Quali risvolti ha avuto poi la causa?
Ital Video ha risposto subito, facendo una controquerela per diffamazione, affermando di non aver mai venduto titoli copiati. Avendo fornito al tribunale tutte le prove delle cassette copiate, pensavo che la nostra causa potesse avere tutti i numeri per concludersi in maniera positiva. Un giorno, il tribunale ordina un’ispezione proprio presso la sede di Ital Video che, ovviamente, si è conclusa con un nulla di fatto: non hanno trovato niente. Così, la nostra causa è stata bocciata perché il fatto non sussisteva. Notare bene: il tribunale non è andato sul mercato o nei negozi per verificare cosa Ital Video stesse vendendo, né ha guardato i campioni che gli abbiamo fornito. Si è limitato a giudicare solo quanto dichiarato dal perito in sede d’ispezione. Questo in sede civile, allo stesso tempo avevo fatto anche una causa penale, d’altronde ero giovane e inesperto. Alla fine, mentre le nostre cause sono finite in un nulla di fatto, la loro causa per diffamazione è andata avanti, per quasi trent’anni! Alla fine, abbiamo anche perso, così che, considerando la natura penale dell’azione, sono stato dichiarato co-responsabile con l’azienda per i danni morali alla controparte e obbligato a pagare un’ingente somma di denaro.
Come abbiamo avuto modo di vedere, Leader negli anni Ottanta si è confermato come il maggiore distributore di videogiochi sul mercato. Verso la fine del decennio, però, è arrivato un nuovo concorrente: C.T.O. di Marco Madrigali, che ha distribuito anche Simulmondo.
Sì, d’altronde a quei tempi di aziende che potessero essere considerate “professionali”, se ne trovavano davvero poche. Come Leader abbiamo anche provato a fare distribuzione di alcuni titoli proprio per Simulmondo, ma Francesco Carlà pretendeva di vendere quantità che il mercato non assorbiva, quindi alla fine non mi pare che si sia mai fatto niente. C.T.O. aveva un grosso player che era Electronic Arts, ma per il resto si trattava di un catalogo piuttosto ristretto.
All’inizio degli anni Novanta, però, un altro player importante che la C.T. O. riuscì ad aggiudicarsi fu Lucasarts (ex Lucasfilm). All’inizio, la software house di George Lucas era distribuita in Europa da US Gold, quindi da voi come Leader, per poi passare, invece, proprio a C.T. O. Cosa è successo?
Fu una cosa abbastanza curiosa. Lucasarts era rappresentata in Italia da due agenti commerciali. In passato, con loro, avevamo già affrontato diversi progetti impegnativi, ricordo infatti che per Zak McKracken abbiamo speso mesi e mesi di lavoro per traduzioni e manuali. Erano gli ultimi mesi del 1989 e avevamo iniziato a lavorare su Loom, la cui implementazione della traduzione italiana iniziava ad andare per le lunghe: dovevano darci il prodotto finito a novembre e siamo arrivati alla fine di gennaio (1990). Eravamo piuttosto frustrati dell’atteggiamento di queste persone che ci appariva inadeguato, specialmente per la quasi totale assenza di risposte sensate sui motivi di questi ritardi. Così ho deciso d’inviare al loro capo una comunicazione molto critica nei loro confronti. Non solo non ho mai ricevuto risposta ma, di lì a poco, Lucasarts è passata proprio a C.T.O. quindi ho la netta impressione che la comunicazione non abbia fatto presa sul capo, ma lui abbia deciso di lasciar perdere Leader! (il suddetto imprevisto portò Loom a una brutta fine sul nostro mercato, colto nel limbo tra C.T.O. e Leader, non venne mai distribuito ufficialmente – ndr)

Per una persona che ha visto la nascita e lo sviluppo di un mercato, quello Italiano, cosa hai osservato rispetto all’Inghilterra?
Di certo c’erano giochi che avevano un successo enorme in Inghilterra che, poi, finivano per essere sostanzialmente ignorati in Italia. Un ottimo esempio potrebbero essere quelli di wrestling, in Italia sono dapprima stati ignorati, poi hanno riscontrato un buon successo per alcuni anni dopo il 1990 e, dopo il 1995, sono tornati a essere ignorati. Inoltre, in generale il livello di diffusione di console è sempre stato, in percentuale, molto più basso, anche rispetto all’Inghilterra. La base di giocatori è meno ampia e in generale il giocatore è più specializzato, in Italia per tanti anni non è proprio esistito un settore di mercato per “casual gamer”, perlomeno non prima del Nintendo Wii. Sicuramente, anche noi come Leader abbiamo commesso degli errori nel giudicare l’andamento di mercato, per esempio sottovalutando l’arrivo di PlayStation. Dal 1995 in poi, i tempi dei grandi pioneri del videogioco sono praticamente tramontati, il lavoro del distributore è diventato più serio e di “routine”. Alla fine abbiamo lasciato che diverse società si prendessero quell’importante fetta del settore console, come per esempio Halifax (poi diventata Digital Bros).
Che numeri esprimeva il mercato Italiano? Quanto vendeva un gioco di successo?
Se parliamo degli anni Ottanta, si tratta di numeri generalmente molto modesti. Parlando di Commodore 64, Amiga e PC, per dire, se un titolo arrivava a vendere diecimila pezzi, per me sarebbe stato automaticamente dichiarato il grande successo dell’anno. Ricordo qualche eccezione, per dire Formula 1 Grand Prix di Microprose è arrivato a fare cinquantamila pezzi, un numero eccezionale per un prodotto PC. In ogni caso, i numeri di vendita andavano sempre calando dopo la prima settimana, anche se – pure qui – ricordo un paio di eccezioni. Ricordo un titolo, di cui non mi sovviene il nome, che ha fatto tremila la prima settimana, la seconda seimila e poi altri seimila la terza! Abbiamo presto scoperto che si trattava di un gioco protetto da un nuovo sistema che i vari cracker non conoscevano, così nessuno riusciva a togliere la protezione.

Parlando di protezione del software, cosa stava succedendo sul fronte pirateria in seguito alla legge sulla tutela del copyright sul software?
Dopo il 1993, Leader faceva parte di un’associazione (Assoft) di produttori del software, dove c’era anche Microsoft. A quel punto, se avevamo bisogno di agire legalmente non si trattava più di un’azione di noi come azienda contro singoli negozi (che avevamo fatto alcune volte in passato) ma dell’intera associazione. Di certo, dopo l’emanazione della legge anche solo provare a realizzare qualcosa che muovesse numeri simili alla pirateria industriale era troppo rischioso. Sicuramente esistevano ancora tanti negozi che producevano copie nel retrobottega. Ricordo che a un certo punto si è ritenuto di coinvolgere anche la SIAE: personalmente, penso che quello sia stato un grosso errore. Hanno finito col crearci tantissimo lavoro in più, senza risolverci nessun problema.
Cosa successe con il coinvolgimento della SIAE?
Come tutela per me come distributore, in realtà poco e niente. Ci fu però l’introduzione del bollino, da dover applicare su tutti i prodotti, nonostante fosse in realtà nato per gli album musicali. In pratica, anche sui videogiochi si operava una tutela simile a quella degli album, anche se non è mai stato chiaro su cosa. Sulla colonna sonora? All’inizio abbiamo ritenuto di mandare i bollini direttamente ai produttori del software in Inghilterra, così che potessero applicarli loro, ma era un giro assurdo e, alla fine, abbiamo preferito applicarli noi come Leader. In ogni caso, la SIAE come associazione ispezionava i negozi sul territorio e, qualora trovasse anche un solo titolo senza il relativo bollino, faceva un verbale gigantesco, un multone e il sequestro dei titoli. Il che poteva anche andare bene, se non fosse che poi tante volte, vicino al negozio multato, si trovava un mercato rionale gigantesco dove si vendevano decine di titoli copiati. Il negozio, che a noi come Leader non recava nessun danno, veniva punito, mentre il mercato di copie piratate era lasciato tranquillo.

Leader si è anche occupata del mercato console in Italia, di cui ho parlato anche nell’articolo Nintendo. Cosa è successo in quel caso?
Si tratta di un discorso un po’ articolato. Con l’arrivo delle console, noi come distributori eravamo quasi del tutto tagliati fuori. Nintendo era praticamente un monopolio Mattel, mentre Sega se la gestiva solo Giochi Preziosi. Oltretutto, la stessa Nintendo spingeva i produttori di software a lavorare solo tramite Mattel. A un certo punto, nel 1991, la società inglese Mindscape mi contatta e decide di offrire a Leader i loro prodotti, spiegando che Mattel aveva deciso di non volerli distribuire. Così abbiamo deciso di sperimentare questo nuovo mercato e li abbiamo portati noi sul mercato. Di certo, la cosa non ha fatto piacere a Mattel: hanno fatto di tutto per metterci i bastoni tra le ruote. Sfruttando il loro contatto diretto con i negozi di giocattoli, tentavano di dire che, sostanzialmente, i titoli Mindscape fossero pessimi e nessun negozio avrebbe dovuto distribuirli. Dopo quella breve parentesi tra il 1992 e il 1993, abbiamo lasciato perdere il settore Nintendo.
E per quanto riguarda Sega?
All’inizio la situazione era piuttosto simile, poi si è evoluta in maniera diversa. D’altronde, già per il Mega Drive c’erano società che avevano altri sistemi di produzione di cartucce compatibili. Chiaramente, Sega ha provato a fare diverse pressioni su queste, tra tutte Electronic Arts, per costringerle comunque a distribuire tramite i suoi licenziatari. Come Leader, noi abbiamo distribuito diversi titoli negli ultimi due anni di vita del Mega Drive, quando Giochi Preziosi aveva iniziato a essere meno interessata, in particolare titoli EA Sports come Fifa 96.

Da persona bilingue, come hai ritenuto di affrontare un argomento importante come quello della localizzazione dei titoli per il mercato Italiano?
Era evidente che molti utenti – negli anni Ottanta specialmente – non avessero dimestichezza con la lingua inglese e questa, all’epoca, poteva essere un ostacolo anche semplicemente per caricare un gioco. Fin dall’inizio, ho ritenuto importante che almeno le istruzioni dei giochi che distribuivamo, arrivassero tradotte in Italiano. Abbiamo ritenuto di occuparcene personalmente, stampando la confezione e le istruzioni. Successivamente, abbiamo chiesto ai produttori originali di farla loro in prima battuta, passandoci il prodotto già tradotto. La complicazione è arrivata con il successo di generi come avventure e RPG, dotati di testi ben più lunghi della media di un action o arcade. A quel punto, siamo stati costretti a ragionare per importanza: se un gioco faceva parte di una serie famosa, di uno sviluppatore apprezzato oppure sembrava particolarmente valido, allora valeva sicuramente la pena investire per realizzarne la versione in Italiano. In media abbiamo notato che un gioco tradotto, rispetto a uno in originale, vendeva 4-5 volte di più. Dunque, il nostro accordo con i produttori era: se mi garantisci la vendita minima di un certo numero di pezzi, io come Leader garantisco la traduzione. Noi facevamo una stima per vendibilità del prodotto per vedere se fosse possibile, ma insomma, di sicuro i giochi di grande richiamo arrivavano sempre in Italiano.
Avevate anche una fase di testing della traduzione? D’altronde, specialmente all’epoca, sono state molte le polemiche su alcuni titoli arrivati con traduzioni ben poco curate.
Sulla fase di testing, dipendeva molto dal prodotto e dal periodo. Quando abbiamo iniziato, negli anni Ottanta, era praticamente impossibile trovare traduttori professionali, per quanto fosse possibile cercavamo di recuperare persone del mestiere o che almeno dimostrassero di avere dimestichezza con la lingua. Come è facile immaginare, alle volte i risultati erano soddisfacenti, altre volte ne usciva un prodotto poco curato. Negli anni Novanta, poi, sono arrivate le prime società di localizzazione in Inghilterra e, solo alcuni anni dopo, in Italia. Prima dell’arrivo delle strutture italiane, abbiamo ritenuto di servirci di quelle inglesi, che promettevano un servizio di traduzione in 4-5 lingue diverse. I risultati, generalmente, non furono molto soddisfacenti. Dopo un periodo in cui ci arrivavano delle lamentele per delle versioni italiani scadenti, abbiamo deciso di tornare a occuparcene noi di fornire una traduzione qualificata oppure, quantomeno, di poter verificare la versione italiana onde poter evitare lavori di bassa qualità. Tra le tante cose discutibili, ricordo un manuale in cui avevano tradotto joystick con “il bastone del piacere”! Successivamente, con l’arrivo di aziende come Synthesis, abbiamo passato la palla a loro.
Si ringrazia John Holder per la cortese disponibilità.
Grazie per la lettura.
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Interessante, molti dettagli inediti credo.
Non è chiaro però cos’abbia fatto per la rivista Zzap; non era neanche edita dalla Fermont
Fino al numero 22 Zzap! era edita direttamente da Studio Vit che era già passato per Jackson, curando Videogiochi prima e, da quel che so, erano ben conosciuti da Holder.