Nel mondo videoludico odierno, il discorso sull’intrinseco valore dell’interattività sembra essere arrivato alla naturale conclusione. Con la Realtà Virtuale – ormai – una tecnologia affidabile ed economicamente avvicinabile, la combinazione “visore più controller” sembra esser necessaria e sufficiente per aver decretato l’inizio dell’epoca dell’interattività 2.0. Una visione non lontano da quella del futuro immaginato nei decenni 80 e 90, celebrato in “classici” come Il Tagliaerbe (1992), oltre a – ovviamente – diversi videogiochi dell’epoca che proponevano al giocatore alcuni fantasiosi assaggi di VR.
In ogni caso, pochi furono i titoli ad andare oltre la combinazione “monitor più controller”: sembrava utopico riuscire a legare l’interattività tipica di un videogioco con l’interazione nella realtà. Ricordiamo sicuramente alcuni timidi tentativi, come nascondere il numero di un aiuto clienti Nintendo sul tavolo di un nightclub (Who Framed Roger Rabbit? – Nes – 1989). The Iron Mask fu tra quei pochi software che riuscirono ad andare oltre il monitor: un prodotto multimediale dove il giocatore era obbligato all’interazione con il mondo reale per proseguire, chiamando un numero cellulare per ricevere suggerimenti da una persona che interpretava un personaggio, consultare siti internet realizzati appositamente, nonché guardare la TV e ascoltare la radio per sviscerare la trama del gioco stesso.
Forse, per immaginare questo diverso approccio all’interattività ci voleva un ruolo diverso da quello di un game designer?
Ho avuto modo di parlare con gli sviluppatori del titolo per saperne di più sull’idea e la realizzazione.
Ottavio di Chio: lo scrittore
Quando raggiungo Ottavio di Chio al telefono e menziono il suo lavoro per The Iron Mask, non nasconde l’esserne sorpreso. A quanto pare, sono passati diversi anni dall’ultima volta che ha avuto modo di parlarne. La seconda cosa che mi dice è che non è mai stato un appassionato di videogiochi, bensì si è sempre approcciato al mezzo videoludico come scrittore. Ottavio è sempre stato affascinato da quello che definisce “la destrutturalizzazione di una storia”: scrivere qualcosa che vada oltre i limiti del mezzo su cui la storia stessa viene letta.
Nel 1993, Ottavio ha l’occasione di collaborare con il regista Maurizio Nichetti (un nome che torna spesso su questo blog) alla stesura della sceneggiatura interattiva per la versione CD-ROM di Stefano Quante Storie. Nella parte multimediale, l’utente ha la possibilità d’interagire con la storia del film così da leggerla dal punto di visti degli altri personaggi: una narrativa interattiva non distante da quella di una visual novel o, forse più appropriamente, un’avventura grafica. Da lì, inizia a formarsi l’idea di sviluppare il primo “videogioco omnichannel”.
Omnichannel è un termine, nato nel marketing, per descrivere la giustapposizione di canali online e offline nel relazionarsi con i clienti: esattamente quel che Ottavio voleva ricreare in un prodotto multimediale. L’idea di combinare i due canali, in realtà, risale ai tempi dei primi cataloghi per ordinare via posta, ma il termine viene utilizzato per la prima volta quando Best Buy ebbe l’idea di trasformare la customer experience in un unicum che includesse l’off-line, l’on-line e l’assistenza post-vendita.
Ottavio parla della sua idea di combinare interattività reale e digitale a Guido Bovolenta, all’epoca presidente di Medialab, un’azienda di Novara specializzata in prodotti multimediali dedicati a giovani adolescenti, come “Patente Facile”. Abbandonando subito l’idea di usare grafica 3D, troppo costosa per l’epoca, decidono di sviluppare invece un’avventura in 2D. “Era il 1997, il mercato dei videogiochi era già comunque competitivo e con il nostro budget non ci era possibile competere sullo stesso livello dei grandi player” ricorda Bovolenta.
Mentre lavorano sulla prima bozza della sceneggiatura, Ottavio e Guido decidono di provare diverse avventure grafiche dell’epoca, alla ricerca d’ispirazione. Entrambi menzionano come furono affascinati proprio da Broken Sword: Shadow of the Templars, ispirazione principale per il look e la giocabilità di The Iron Mask. Ottavio ricorda distintamente che, nel giocare il titolo sviluppato dalla Revolution Software, aveva l’impressione che mancasse qualcosa: “Non mi piaceva questa interattività improntata al godere passivamente una storia. Mi piaceva l’idea che un gioco non fosse solamente sedere passivamente davanti allo schermo, ma si potesse anche interagire con diversi media.”
Così, l’idea di portare agli adolescenti – il target di pubblico per The Iron Mask – un’esperienza narrativa arricchita da un’interazione ludica 2.0. “La scintilla” ricorda Guido “venne da un film con Micheal Douglas, The Game (diretto da David Fincher ndr), dove il protagonista viene, a sua insaputa, coinvolto in un gioco con sorprese e colpi di scena. L’idea era di ricreare un’esperienza simile per il nostro giocatore.”
Inizia lo sviluppo
Guido e Ottavio decidono di reclutare alcuni collaboratori esterni come artisti, mentre il resto del team diretto da Bovolenta avrebbe lavorato alla programmazione e alla colonna sonora. Mauro Perini fu selezionato per il ruolo di animatore e, in generale, di direzione artistica, mentre Maurizio Galia si occupò dei fondali.
Perini racconta di The Iron Mask come il suo primissimo lavoro nel settore videoludico: non aveva mai collaborato a un progetto così ambizioso, tantomeno in una posizione di direzione. Tre anni prima aveva conseguito il diploma all’Istituto Europeo di Design, seguendo alcuni lavori segnalati dalla scuola. In seguito a una segnalazione che un’azienda di Novara, proprio Medialab, cercava alcuni collaboratori artistici, aveva mandato un portfolio. “In realtà mi ero originalmente proposto per lavorare sui fondali, ma a Guido piacquero i miei lavori e mi chiamò per la posizione di direzione artistica. Era un periodo di lavoro intenso, ma di grande stimolo creativo.”
Mauro ricorda di essersi dovuto trasferire a Novara, per seguire più da vicino il progetto: “Non conoscevo nessuno in città, ovviamente, ma tutti nel team erano molto accomodanti e sorridenti, quindi lavorare rappresentava comunque un piacere. A volte ero proprio io a chiudere gli uffici di Medialab alla sera!”. Ma – mi viene spontanea la curiosità – Mauro aveva la passione per i videogiochi?
“Macché, non avevo nemmeno una console a casa! Arrivavo da un mondo d’illustrazione tradizionale e, a parte un corso basic di Photoshop, non avevo nemmeno mai lavorato in digitale!”
Per il progetto, Perini lavorò con un misto di disegno tradizionale e composizione digitale. “Facevo l’animazione, i disegni a matita, l’inchiostratura, la scansione, la trasformazione in digitale, colorazione e il montaggio! Mi ero studiato da solo l’interfaccia di Free Hand su Mac – per le transizioni tra ogni scena con gli sfondi realizzati da Maurizio. Come hardware utilizzavo i Powermac, un’attrezzatura davvero all’avanguardia per l’epoca.” Tra le varie ispirazioni per il character design, Mauro menziona The Secret of Monkey Island: “Non son sicuro che si noti però!”
Maurizio Galia, incaricato di lavorare sui fondali, è invece un illustratore tradizionale diplomato in pittura all’Accademia delle Belle Arti di Torino. L’artista viene raggiunto da Ottavio attraverso contatti comuni nella scena artistica del capoluogo piemontese. Si ricorda: “Iniziammo a lavorare nella primavera del 1997. Mi sono innamorato subito dell’idea di disegnare dei luoghi reali di Parigi.” Oltre all’ispirazione dalla realtà, Maurizio si lasciò influenzare anche dall’art noveau e, per alcune scene in prigione, dal classico artista veneziano Giovanni Battista Piranesi.
“Cercai di rendere Parigi nella maniera più fedele possibile” continua Maurizio, che tuttora conserva un ricordo molto positivo legato agli sfondi di The Iron Mask. “Oltre a esser stato pagato bene, era un lavoro che durò quasi due anni, decisamente a lungo. Alla fine mi ritrovai anche a dover dare una mano a Mauro; nonostante non fossi bravissimo con la tecnologia, lui era davvero oberato e da solo non ce l’avrebbe mai fatta a rispettare le scadenze. É stato un lavoro che poi mi ha dato modo di seguire tanti altri progetti sulla scia del prodotto multimediale.“
La storia di The Iron Mask vede protagonista il giovane ladrunconolo Efrem, appena uscito di prigione, immediatamente braccato da alcuni gangster che sembrano decisi a fargli la pelle. A quanto pare, il nostro sa più di quel che sembra ricordare: durante il suo soggiorno in galera ha avuto modo di vedere la faccia dell’uomo che si nasconde dietro la “maschera di ferro”. La storia raccontata da Alexandre Dumas si sta ripetendo, trecento anni dopo: Efrem avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile, sia da parte della sua ex fidanzata Anne Marie che dall’anziano e saggio professor Durer, per risolvere il mistero e sopravvivere ai luciferini ritmi elettronici del malvagio DJ Madaski.
Il primo enigma si rifaceva subito alla commistione tra realtà e digitale. Il giovane ladruncolo avrà bisogno di un codice per uscire di prigione: il giocatore avrà modo di aiutarlo utilizzando l’ordine di scarcerazione – contenuto nella scatola del gioco – oltre a dover chiamare un apposito numero telefonico per ricevere il suddetto codice.
Telefoni cellulari, radio e televisione: il marketing omnichannel
Il lavoro ha inizio, dunque, nel 1997 con un ritmo lento ma costante: ciascun collaboratore lavorava in proprio e, settimanalmente, si tenevano riunioni negli uffici Medialab con Maurizio, Ottavio, Guido e Mauro. La sceneggiatura veniva letta ad alta voce, con Perini intento a tracciare degli storyboard per ogni scena che, a sua volta, Galia avrebbe usato come ispirazione per gli sfondi. Era un lavoro piuttosto artigianale, legato a una sceneggiatura in costante evoluzione che si adattava alle idee e proposte altrui.
Mauro e Maurizio ricordano diverse settimane d’impegno su questo ritmo, nel frattempo l’intero lato marketing veniva gestito da Guido Bovolenta e Ottavio Di Chio. Normalmente, all’epoca, una software house, oltre a cercare un accordo con qualche distributore (che Medialab già aveva attraverso la pubblicazione di precedenti prodotti) avrebbe preso contatti con riviste specializzate come The Games Machine e Consolemania, alla ricerca di visibilità con un’intervista o l’invio di materiale. Medialab non fece niente del genere, invece Ottavio e Guido Bovolenta decisero di passare direttamente alla televisione.
Il primo interlocutore fu Mediaset. “L’idea originale in quelle riunioni” – ricorda Ottavio – “fu di realizzare un programma mandato in onda in diretta, con gli attori che avrebbero ripreso diversi personaggi del gioco. Presto, però, ci si rese conto che l’idea, oltre a essere di difficile realizzazione, era anche piuttosto costosa.” Attraverso Mediaset, però, i due riescono a prendere contatti con i rappresentanti marketing della rete telefonica TIM che si dicono interessati ad aggiungere il proprio branding e contribuire con il supporto di indizi via SMS per i giocatori.
Quando Ottavio finisce con il coinvolgere nel progetto Madaski, DJ e artista elettronico (oltre a membro degli Africa Unite), arriva anche l’interesse di MTV. Il musicista fu proprio un’idea di Ottavio – ricorda Guido Bovolenta – era un artista piuttosto conosciuto e apprezzato nel giro torinese. Inizialmente contattato solo come testimonial, Ottavio ricorda: “L’unico limite nell’avere un artista famoso nel ruolo dell’antagonista è che di certo non si poteva pensare di terminare la storia con una sua sconfitta o, peggio, la morte…”.
Raggiungo Madaski che ricorda l’esperienza: “Inizialmente dovevo contribuire solo alcuni brani musicali, poi c’è stato un coinvolgimento maggiore, anche d’immagine.” Al riguardo del suo ruolo di cattivo della storia di The Iron Mask, l’artista menziona in primis il suo stile visivo: “ho sempre curato particolarmente il mio look: mohicano con dreadlocks, pellicce vistose (sintetiche), pelle e stivali. Amavo definirmi un technocowboy e, d’altronde, ho la fama di essere un “cattivo”, anche se in realtà non lo sono affatto! Mi piace dire le cose come stanno e questo è un atteggiamento che sovente può essere frainteso.” Quindi, come dire, la parte del DJ satanico calzava a pennello.
Devo chiederlo anche a Madaski (al secolo Francesco Caudullo): era un videogiocatore? “No, non lo sono mai stato. Anzi, non ho più neanche preso parte a progetti del genere: dopo questo album solista, ho dedicato tutte le forze agli Africa Unite e al lavoro in coppia con Bunna, che era cresciuto molto.”
Questo il videoclip creato per The Iron Mask per il singolo Share All My Pride, tratto dall’album solista “Da Shit is Serious” di Madaski.
Con TIM che gestiva la produzione e Mtv la trasmissione, l’idea finalmente si concretizza: sarebbe stata realizzata una serie di piccoli spot (inferiori ai 10 secondi) per offrire suggerimenti e riferimenti essenziali per i giocatori, che sarebbero andati in onda ogni giorno alle 19.40, per diversi mesi. Sfortunatamente, nessuno degli spot televisivi realizzati per The Iron Mask sembra, ormai, di facile reperibilità.
Insieme al comparto televisivo, Medialab prese accordi anche con Radio Italia Network per realizzare alcuni segmenti a tema da trasmettere in contemporanea con gli spot, oltre a scritturare un’attrice che prendesse i panni di Anne Marie anche nella realtà. Proprio poco dopo l’uscita di prigione nella prima scena di The Iron Mask, infatti, Efrem recupera il numero di cellulare di Anne: chiamandolo i giocatori avrebbero trovato l’attrice pronta a rispondere a delle domande – seguendo un copione – così da fornire indicazioni e suggerimenti.
La sponsorizzazione con Tim e Radio Italia Network – nonostante rimanesse ben visibile durante il gameplay e sulla scatola stessa – distacca nettamente il giocatore dall’esperienza ludica e sembra implementata tardivamente. Entrambi i marchi compaiono come icone interattive in certe parti del gioco: Paola Testa e Roberto Lezzi (conosciuto anche come Ilario di M2O), DJ di RIN, sono protagonisti di alcune breve sequenze video montate in stile videoclip MTV che interrompono il gameplay, fornendo alcuni indizi criptici.
Forse dotare Efrem di una radio portatile o un walkman avrebbe avuto più senso, così da permettere al giocatore di non essere brutalmente estromesso dal mondo di The Iron Mask. La scatola del gioco includeva anche un ciondolo che i giocatori avrebbero dovuto indossare, così da “riconoscersi” l’uno con l’altro se si fossero incrociati per strada.
Di certo, un marketing complesso non aiutò uno sviluppo che continuò a procedere lentamente, arrivando a due anni pieni. Perini nel 1998 lascia il progetto, avendo risposto a un annuncio di Ubisoft dove lavora anche oggi. Ricorda che “ero rapito dal vedere i miei disegni che prendevano vita nel videogioco, con l’aggiunta del doppiaggio e la colonna sonora, decisi così di continuare a lavorare nell’industria, rispondendo a un annuncio di Ubisoft. Sicuramente l’esperienza accumulata con The Iron Mask mi ha permesso di emergere più facilmente sugli altri candidati, avendo fatto pratica con la digital art: caratteristica decisamente non scontata per il 1998. Ottavio, poi, ha supportato caldamente la mia candidatura.”
Risulta oggi piuttosto sorprendente come Medialab riuscì a realizzare queste idee avanguardiste con un budget che ammonta a circa duecentomila euro odierni. Di Chio si ricorda di essere stato, anche lui, sorpreso dalla rapidità con cui gli sponsor accettarono di collaborare al progetto, mentre Bovolenta menziona come fu fondamentale il supporto economico del fondo MEDIA (destinato ai prodotti multimediali) dell’Unione Europea: una cifra necessaria per arrivare alla conclusione dello sviluppo senza ulteriori interruzioni. Sicuramente, con un budget comunque ridotto, mantenere l’interattività reale oltre qualche mese sarebbe stato piuttosto complicato.
Questo fu un grosso problema quando si trattò di vendere The Iron Mask (pubblicato da Mondadori e Leader) nei negozi poco prima di Settembre 1999. “Era quasi Natale”– racconta Ottavio – “e, per Aprile dell’anno successivo, tutti i servizi interattivi sarebbero stati interrotti. I venditori dissero che avrebbero avuto bisogno di diversi mesi per piazzare il prodotto e questo voleva dire spiegare agli eventuali acquirenti che The Iron Mask andava terminato in tre mesi, altrimenti non ci sarebbero più stati indizi di sorta.”. Ma i problemi non finivano qui.
Post-mortem: il mancato viaggio a Praga
I due anni di sviluppo sembrano riflettersi anche sul ritmo stesso della storia: la narrativa si sviluppa attraverso lunghe conversazioni tra i personaggi principali, per poi improvvisamente concludersi in maniera sbrigativa, senza un vero finale. Ottavio ricorda che lo sviluppo era andato troppo per le lunghe, dopo due anni c’era la necessità di portare a termine il progetto e in fretta, tanto che le ultime battute della storia furono scritte mentre si programmava la scena stessa. Il finale – dove Madaski s’intravede ma non verrà affrontato direttamente dal protagonista – rimanda lo scontro con l’antagonista a un futuro capitolo della saga, ipoteticamente ambientato a Praga, poi mai realizzato.
Tecnicamente, The Iron Mask non era un titolo che si facesse notare; d’altronde nel 1999 anche l’avventura 3D della Lucasarts, Grim Fandango, era già vecchia, una grafica 2D realizzata a mano, con il supporto di Macromedia Director 7, non avrebbe catturato facilmente gli adolescenti. Il gameplay ibridato tra un punta e clicca e un gioco educativo, sostanzialmente una moderna visual novel con alcune sequenze arcade, pure non deponeva a favore del titolo Medialab. All’epoca, il mercato dei giochi PC non sapeva bene come collocare certi “prodotti multimediali”, Bovolenta ricorda che finivano tutti in un calderone poco considerato, generalmente definito dagli addetti ai lavori come “reference”.
Le riviste di settore dell’epoca finirono con ignorarlo, mentre alcuni quotidiani nazionali come Repubblica furono più ricettivi, sottolineando la forza dell’idea e un potenzlale futuro per alcune meccaniche di gameplay, criticandone, però, il comparto grafico. Restò, comunque, un’attenzione limitata: alla fine The Iron Mask vendette un numero molto limitato di esemplari, tra le 3500 e le 5000 copie. Resta oggi una curiosità per collezionisti, più che altro.
Nello scoprire i retroscena dello sviluppo di The Iron Mask, ne è emersa una corrente difficile da ignorare: nessuno dei produttori, artisti e scrittori coinvolti aveva mai lavorato a un videogioco né tantomeno era videogiocatore abituale! Per quanto oggi non sia (più) necessario avere esperienza per sviluppare un titolo, all’epoca approcciarsi al mercato videoludico era ben meno agevole. La coincidenza potrebbe aiutare a spiegare i motivi per cui The Iron Mask sia rimasto un’esperienza sostanzialmente unica per l’epoca, pur rimanendo pienamente ancorato allo stile comunicativo degli anni 90.
Giocarlo oggi è come aprire un vecchio baule dei ricordi: vecchi telefoni cellulari con SMS, apparizioni di DJ che all’epoca potevano essere facce familiari per adolescenti ma oggi non avremmo idea di chi siano, riferimenti a MTV Italia quasi come fosse una sorta di “culto mistico”. A distanza di più di 20 anni, rimane un’esperienza unica, pur nel variegato panorama nazionale dei prodotti multimediali dei tardi anni 90. The Iron Mask sembra nato da quel fascino che l’Italia nutriva, in qualche modo, verso l’interattività videoludica, celebrato in film come Viol@ che maldestramente esplorava l’inedito argomento del rapporto sessuale via chat o Nirvana (1996) di Gabriele Salvatores, una svolta nella narrativa “cyberpunk”. A tutti gli effetti, il videogioco omnichannel fu un esperimento non più ripetuto nemmeno al di fuori dei confini nazionali – con l’eccezione di esperienze più limitate come Missing (2002) che usava e-mail e siti web – negli anni a venire.
“Credo The Iron Mask sia stato sviluppato troppo presto. Avevamo probabilmente sottovalutato la portata dell’opera e il tempo richiesto per finirla.” conclude Ottavio “Anche solo cinque anni dopo sarebbe stato recepito in maniera molto diversa. D’altronde, il mio lavoro di oggi mi porta proprio a pensare delle esperienze narrative per il marketing di grandi alberghi o negozi.” In qualche modo, sembra che l’esperienza ludica multicanale continua a essere rilevante per il suo settore lavorativo anche dopo tutti questi anni. “Oggi nel marketing non si può prescindere dall’omnichannel: c’è molta più attenzione alla narrativa che all’azione!”.
Madaski ricorda come The Iron Mask fu anche, in qualche modo, la summa delle influenze della scena musicale torinese di quel periodo: “La scena artistica di Torino, per tutti gli anni 90 e inizio 2000 è stata fantastica, un fiorire d’innumerevoli collaborazioni sia live che studio. Si respirava vera emozione nel fare musica insieme, il livello dei musicisti era decisamente alto. Questo lo definisco come il vero approccio alla musica e alla sua veicolazione, era un tutto che ti formava come persona e come musicista, al contrario dell’ottica usa e getta da trasmissione televisiva o social media attuale.”
Concludendo la mia telefonata con Mauro Perini, è interessante notare come questo piccolo esperimento dimenticato si rivelò la chiave per la carriera di un artista di grande talento, dimostrato poi in Ubisoft, lavorando su titoli di assoluto rilievo come la serie Splinter Cell e Beyond Good and Evil. Quando chiedo a Mauro se dobbiamo, in qualche modo, il successo internazionale di Mario + Rabbids (su cui ha rivestito il ruolo di Art Director) a The Iron Mask, lo sento sorridere e mi dice “Penso proprio di sì!”.
Fonti & Riferimenti
Interviste telefoniche condotte dal sottoscritto con Ottavio Di Chio, Guido Bovolenta, Maurizio Galia, Mauro Perini e Madaski tra gennaio e marzo 2021.
Si ringraziano le persone intervistate per la loro disponibilità e i materiali messi a disposizione per l’articolo.
Grazie a Chiara di Advanced Studios per le informazioni aggiuntive.